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Sono molto molto, molto arrabbiato. Arrabbiato d'una rabbia fredda, lucida, razionale. Una rabbia che elimina ogni distacco, ogni indulgenza. Sono molto arrabbiato con me stesso. Per aver giudicato una donna, una intera esistenza, in base a una cosa. Una sola tra le mille, probabilmente più di mille, che ha scritto nel corso della sua carriera. Avevo giudicato Oriana Fallaci soltanto per il suo celebre articolo La rabbia e l'orgoglio, pubblicato sul Corriere della Sera il 29 settembre 2001, a una manciata di giorni di distanza dagli attentati alle Torri Gemelle. Un pezzo fin dal titolo rabbioso che aveva suscitato anche in me una profonda rabbia. Contro di lei, contro le sue parole, contro il suo modo di usarle. Una reazione che mai nessun altro articolo di giornale mi aveva suscitato. Segno che il suo pezzo colpiva nel segno. Nel bene o nel male.
Giudicare Oriana Fallaci soltanto in base a quello scritto si è rivelato del tutto sbagliato. Un grave errore. Un giudizio fallace. C'è voluta una fiction Rai per farmelo notare. È come giudicare la carriera di Lou Reed soltanto in base all'inascoltabile “Lulu”, il disco che ha inciso insieme ai Metallica, ignorando le cose splendide che ha realizzato con i Velvet Underground e da solista. Per me e per la mia generazione Oriana Fallaci è identificata soprattutto con quello scritto, con quello sfogo di rabbia e di orgoglio. Più di rabbia che di orgoglio, se vogliamo dirla tutta. Oriana Fallaci è però stata molto altro e molto di più e il film tv in due puntate L'Oriana lo mette bene in mostra.
Ieri dicevo che Rocco Tanica era il vero vincitore morale del Sanremo 2015. Mi spiace per lui, ma dopo la serata di ieri il Festival ha trovato un nuovo vincitore. Anzi, una nuova vincitrice. Anzi, una nuova doppia vincitrice: Emma Marrone in versione gemelle di Shining.
Ecco cos'altro ha offerto la terza puntata di questo entusiasmant... hey, ma che sto scrivendo?
Ecco cos'altro ha offerto la terza puntata di questo solito modesto Sanremino.
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Mah… gnifica presenza.
Non so davvero cosa pensare, di un film come Magnifica presenza.
Oggettivamente parlando, è davvero modesto. La regia del poco magico mago di Ozpetek non regala certo momenti di grande cinema. A livello visivo, oltre a una buona cura per il trucco dei suoi poco fantasmagorici e molto fantasmi personaggi, è poca roba.
Come recitazione, si salva un valido seppure pure lui parecchio impostato Elio Germano, e a sorpresa salvo anche Vittoria “Elisa di Rivombrosa” Puccini. Quanto a Giuseppe Fiorello… orrore! E Margherita Buy? Non la si può davvero più sopportare. Va bene fare la nevrotica una volta, due volte, tre volte. Alla miliardesima volta si fa una raccolta di firme per non farla mai più comparire in un film/fiction/serie tv.
Quanto alla breve apparizione non da fantasma bensì reale di Maurizio Coruzzi meglio noto come Platinette, strappa anche un sorriso, va là, però non è che fosse così fondamentale per il film. Comunque, sempre meglio Platinette del fratello (raccomandato) di Fiorello.
Tra le note negative, ci metto dentro anche la colonna sonora. Passi "Perfidia" di Nat King Cole, non male, ma Patty Pravo e Claudia Mori… andiamo, fanno persino troooppo Ozpetek. Sembra quasi che Ozpetek con questo film abbia voluto fare il verso a se stesso, un po’ come l’ultimo riciclato Tim Burton.
"Hey, hai mai visto Paranormal Activity?"
E la storia? Com’è la storia di Magnifica presenza?
Si tocca un filone classico del cinema horror, quello della casa infestata. Solo che questo non è un film horror. È il classico film… come si può chiamare il genere? Ozpetekiano. A essere maligni, Ozpetek è una versione di serie B di Almodovar. Considerando però il pessimo tentativo recente di Pedro con il thriller nell’involontariamente (o forse volontariamente?) ridicolo La pelle che abito, i pur timidi approcci di Ozpetek con l’horror fanno una figura già un minimo più decente.
I tentativi di creare tensione, va detto, si limitano alla prima parte. Dopodiché Magnifica presenza scorre in altre direzioni. Più che altro quelle della commedia. In maniera magnifica? No. Non direi proprio. Perché, oggettivamente parlando, come detto Magnifica presenza è poca roba. È un film pasticciato, confuso, ha una sceneggiatura con dei buchi grandi come una casa (infestata), propone una serie di personaggi messi dentro alla rinfusa che appaiono e poi scompaiono. Cosa quest’ultima probabilmente voluta, sebbene non tutte le “presenze” risultino proprio magnifiche magnifiche.
"Ao', so' tutti truccati, mo' me trucco anch'io!
Come Platinette no, me rifiuto."
Tutto questo, parlando oggettivamente. Però su questo blog non si parla in maniera oggettiva. E un film come questo non va giudicato in maniera oggettiva. Ozpetek ha girato, come in fondo fa sempre o quasi, una pellicola intima, fatta di sentimenti e di emozioni. Anche perché, diciamocelo, non è che sia poi ‘sto virtuoso della macchina da presa.
Visto sotto un’ottica puramente soggettiva e personale, Magnifica presenza vanta allora dei punti a suo favore. Il fatto di non sapere bene dove andare a parare può essere visto come un difetto, e probabilmente lo è, ma allo stesso tempo contribuisce a non dare certezze allo spettatore. A lasciarlo sospeso in attesa di qualcosa. Qualcosa che poi non si concretizza effettivamente in momenti di grande cinema, ma almeno lascia per tutto il tempo con una certa curiosità.
C’è poi una forte componente visionaria (onni)presente. Non è sviluppata a dovere, d’altra parte Ozpetek non è David Lynch, però riesce a creare un’atmosfera piuttosto surreale. Quasi un ribaltamento della realtà e delle convenzioni comuni. Il protagonista Elio Germano è ovviamente omosessuale (altrimenti che razza di film di Ozpetek sarebbe?), lavora di notte, è un attore, è pazzo, è pure uno stalker e tutt’intorno a lui sembra muoversi solo un’umanità strana: fantasmi, transessuali, persone truccate e travestite.
Omosessualità, travestimento, musica retrò… sì, ci sono proprio tutti gli elementi tipici di un film di Almodovar, ehm, cioè volevo dire di Ozpetek.
"Ma dimmi te se dovevamo arrivare da un'altra epoca
per leggere le fregnacce di Cannibal sul nostro conto..."
La normalità non sembra dunque avere posto nella vita del protagonista. Di certo, non sembra abitare nella sua casa. Una casa infestata da degli attori (come lui) fantasma, scomparsi durante il periodo della seconda guerra mondiale. Qui la ghost-story poteva prendere la piaga del j-horror alla The Ring, con la classica ricerca a caccia della loro vicenda passata, e in parte la imbocca. Seppure rimanendo su sentieri da commedia più che da film del terrore. Una vicenda di fantasmi più sullo stile di Ghost, se vogliamo, però meno drammatico. Meno romantico. No, diciamo che siamo più dalle parti di 4 fantasmi per un sogno, quel film con Robert Downey Jr. che “vede la gente morta”.
Il tutto con un’atmosfera onirica che ricorda La kryptonite nella borsa, altra gradevole quanto difettosa pellicola italiana recente, girata non a caso da Ivan Cotroneo, che già aveva lavorato con Ozpetek sulla sceneggiatura del precedente Mine vaganti. A proposito di Mine vaganti, se Magnifica presenza segna un passo avanti per il regista italo-turco come tentativo di fare qualcosa di diverso, di variare la sua formula aggiungendo una componente vagamente fantasy, dall’altra parte segna un passo indietro per riuscita. Mine vaganti era infatti più brillante, sbarazzino, divertente e allo stesso tempo profondo.
Magnifica presenza riesce a non farsi odiare ma semmai muove un moto di simpatia per la genuinità del suo approccio e perché sembra un sentito atto di amore nei confronti del cinema e della “finzione, finzione”. Eppure al termine della visione fa rimanere sospesi con un forte: “Mah…”
Cast: Stefano Accorsi, Vittoria Puccini, Claudio Santamaria, Giorgio Pasotti, Pierfrancesco Favino, Marco Cocci, Sabrina Impacciatore, Daniela Piazza, Primo Reggiani, Adriano Giannini, Valeria Bruni Tedeschi
Le premesse certo non sono delle migliori. Gabriele Muccino torna dalla trasferta hollywoodiana con in valigia l’orripilante inno al capitalismo e al conformismo sociale titolato La ricerca della felicità e il sonnacchioso inno alla vita new-age di 7 anime. In più, tanto per tirar su qualche altro soldino, il Muccino si è messo a fare tutta una serie di pubblicità merdose (la Tband Tim la scorsa estate, quest’anno la minchiata con Christopher Lambert per Fiat).
Dico questo con rammarico, visto che i suoi film italiani mi sono piaciuti. Davvero frizzante e divertente all’esordio con Ecco fatto; piacevolmente adolescenziale, prima che il genere adolescenziale venisse sputtanato da Moccia, in Come te nessuno mai (il suo film che preferisco); melodrammatico e con tentativi (magari non del tutto riusciti) di descrizione generazionale in L’ultimo bacio. Infine, esageratamente melodrammatico e con tentativi (anche qui non pienamente riusciti) di descrivere la società italiana tra veline e borghesia romana in Ricordati di me. Tutti film se non altro personali e vivi.
A far da traino al suo ritorno in patria, per cui ha rispolverato i personaggi del suo film più celebre, è arrivata poi la canzone “Baciami ancora” del Jovanotti. Una ruffianata assurda, laddove “L’ultimo bacio” di Carmen Consoli era una delicata, dolce, bella ballad nostalgica.
Premesse non delle migliori e anche l’inizio non è dei più esaltanti. La voce fuori campo alla American Beauty era roba da 10 anni fa. Il cercare di scimmiottare l’intreccio di personaggi di Magnolia pure. Moh basta, però. Ecco: i personaggi del film sembrano rimasti ancorati allo scorso decennio. Nel passaggio dai 30 ai 40 non sono cresciuti per niente. Forse sono persino regrediti.
Accorsi è ancora più frenetico e nervoso, tanto che, ironia della sorte, in questo Ultimo bacio – Parte seconda ci rimette quasi le penne per lo stress. Dategli dello Xanax, please, o fatelo andare da uno strizzacervelli bravo.
Pierfrancesco Favino ha le orecchie e un ego ancora più grosso. E pensare che c’è chi lo considera un sex-symbol.
Giorgio Pasotti è cambiato. In peggio. L’hanno ridotto davvero in uno stato pietoso, con una pettinatura che al confronto il Javier Bardem di Non è un paese per vecchi quando passa per strada lo chiamano “Ah bellicapelli!”
Per fortuna che c’è Claudio Santamaria in versione depresso-psicopatico ad alzare il ritmo di un film che parte piatto.
Marco Cocci è sempre quello libero, indipendente, che sogna di fuggire da questa Italia di merda senza prospettive e da un lavoro eternamente precario al supermercato.
E anche Muccino alla fine è sempre lo stesso. È tornato con una consapevolezza maggiore dei propri mezzi, una fotografia più ricercata ma fondamentalmente è lo stesso che era prima di attraversare l’Oceano. Il che, visti i risultati americani, è un bene anche se i difetti pure stavolta non mancano: la sceneggiatura ha delle svolte facili e prevedibili, Muccino ha un gusto musicale da spot Barilla e costruisce paesaggi agresti da cartolina, per non dire da spot Tim.
Qualche cosa però è cambiata, almeno a livello di cast femminile. Anche nelle critiche negative al film, quasi tutti hanno sostenuto quanto Vittoria Puccini fosse brava e non facesse sentire la mancanza di Giovanna Mezzogiorno. No, dico: stiamo scherzando? Elisa di Rivombrosa che sostituisce la (forse) migliore attrice italiana di oggi e si dice che non si sente la sua mancanza? Ma andatevenetuttiaffaaaaaaancuore
Ché pure fisicamente le due non c’azzeccano una mazza l’una con l’altra e solo quello stordito di un Accorsi può essere l’unico a non accorgersi che sua moglie si è trasformata in un’altra donna, mentre prova in tutti i modi a fottersela, pardon “baciarla”, ancora.
Se ne L’ultimo bacio era la ragazzina Martina Stella a far scatenare la crisi, stavolta in un ribaltamento dei sessi è Daniela Piazza, la moglie di Dumbo Favino, a spassarsela con un ragazzino più giovane.
E poi c’è Sabrina Impacciatore, migliorata sia fisicamente che a livello recitativo. Sembra oggi quasi una Charlotte Gainsbourg de Tor Vergata. Aò.
Son tornate le lucciole a Roma, canta Jovanotti. E proprio come una "lucciola" che si è prostituita a Hollywood, anche Muccino è tornato. Tra luci e ombre, con i suoi pregi e i suoi difetti. Ma almeno ha smesso per un momento di fare lo schiavetto al soldo di Willy Smith, di Tim o di Fiat (seppure qua dentro c’è una gran bella marchetta della Lancia Ypsilon) e ha fatto un cinema suo al 100%.
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